La Valle di Susa si presenta ai suoi abitanti ed ai tanti turisti che vi transitano o soggiornano, come un complesso deposito di testimonianze d’arte, la maggior parte di natura sacra, che hanno la caratteristica di essere collocate in modo diffuso sul territorio e di appartenere ad epoche storiche e luoghi geografici anche molto diversi e lontani tra loro.
La conformazione territoriale della nostra Valle ha certamente ispirato l’uomo nel suo rapporto con il divino e favorito la produzione ed il collocamento in questi luoghi di oggetti d’arte significativi a livello europeo.
Le varie tappe della storia religiosa valsusina, conosciuta attraverso i documenti, sono incise con forza sulle pietre della Valle: le si possono scoprire nel latino delle innumerevoli iscrizioni, rintracciabili ovunque nel territorio, e ancora di più nella tipologia degli edifici. È presente tra le navate delle chiese medievali, all’interno delle quali il romanico ed il gotico acquisiscono caratteri del tutto particolari, come pure nei campanili, rimasti tenacemente fermi per un millennio e che neppure i cambiamenti di gusto sono riusciti a trasformare.
A loro volta i cicli di affreschi delle chiese e delle cappelle, la statuaria lignea e i molti oggetti di oreficeria intrisi di valori cristiani esprimono nelle forme un linguaggio internazionale che rimanda a territori lontani, dalla Penisola Iberica e dalla Francia sino all’Inghilterra ed al Nord della Germania.
Oggi ci troviamo così di fronte ad un immenso patrimonio e all’esigenza, o meglio al dovere, di trasformare questo deposito d’arte sacra in un moderno e diffuso “museo”, associando quest’ultimo termine non tanto all’immagine di un’istituzione ospitata in un edificio di conservazione, quanto piuttosto a quella di uno spazio territoriale dove le memorie artistiche siano studiate e valorizzate in modo organico e integrato, così da giungere all’individuazione di molteplici itinerari nei quali protagoniste siano l’arte sacra e la cultura religiosa della Valle.
San Giusto, titolare della Cattedrale di Susa, è il Patrono principale della Diocesi. Su di lui si tramandano interessanti leggende, ma la sua vita è storicamente documentata. Tutto ciò che si sa intorno all'origine ed alla famiglia di San Giusto è contenuto nell'epitaffio trovato sotto il suo capo quando si aprì la tomba in cui era rinchiuso, un secolo dopo il suo martirio (avvenuto nel X secolo): "Qui giace Giusto, monaco, fratello di Leone, compagno di S. Pietro il vero". Il testo è molto enigmatico e gli studiosi si son divisi sulle interpretazioni circa l'identità di tale Leone e circa l'espressione "compagno di S. Pietro il vero", senza riuscire a fornire una lettura definitiva.
Di sicuro si sa che San Giusto fu monaco all'Abbazia di Novalesa, in cui occupava una carica importante, si può supporre quella di procuratore o cellerario. A lui, infatti, fu affidata la difficile missione di custodire l'Abbazia in mezzo alla confusione ed al disordine causato dall'arrivo degli infedeli. Infatti, colui che era destinato a rimanere fino all'ultimo momento nel monastero abbandonato ed a curare l'esecuzione dei lavori più indispensabili per mezzo delle persone di servizio era il procuratore. Il cellerario, invece, si occupava della direzione e della verifica dei lavori, oltre che dell'ospitalità.
Dunque San Giusto rimase, con San Flaviano, a custodire il monastero, non per aspettarvi i Saraceni, come alcuni credettero, ma per rimanervi finché fosse stato possibile. Nell'incertezza del momento in cui l'orda devastatrice doveva giungere e nell'ignoranza dei progetti che la muovevano verso Novalesa, era necessario continuare ad amministrare i beni dell'Abbazia e di attendere alla cura religiosa delle popolazioni del vicinato.
Sopraggiunti dunque i Saraceni, San Giusto e San Flaviano si rifugiarono a Beaulard e quindi, vedendo il martirio dei Cristiani ad Oulx, andarono anche loro incontro alla morte. Il primo spettacolo che là si presentò loro fu l'uccisione di un vecchio monaco. Questi veniva scorticato vivo dai Saraceni che speravano, con quell'orribile tormento, di fargli confessare i luoghi nei quali erano nascosti i loro tesori e le vettovaglie. Poiché il monaco rispose che i loro tesori erano i digiuni, le orazioni, il disprezzo delle ricchezze e le loro vettovaglie erano le oblazioni dei fedeli, i Saraceni lo uccisero trafiggendogli il corpo con una lancia. San Giusto, alla vista di tale spettacolo, pianse e disse a quegli uomini empi: "E come mai ardite voi a lavarvi le mani nel sangue cattolico, ed infierite contro la viva immagine di Dio? Come non temete che lo sdegno di chi creò l'uomo a sua immagine si faccia sentire ai vostri danni?". Allora i Saraceni si infiammarono d'ira ed uno di essi con la spada lo ferì sul capo, tanto da fargli uscire le cervella, mentre, un altro, gli trapassò le viscere ed un terzo gli staccò la testa dal busto. Infine, i Saraceni gettarono il corpo del Santo in un pozzo profondo con altri corpi di martiri, affinché i Cristiani non venerassero le loro reliquie, riempiendo poi il pozzo di pietre. I Cristiani, però, successivamente, seppellirono i corpi dei martiri nella Cappella di San Pietro, che si trovava lì nei pressi.
Successivamente, nel 1029, le reliquie di San Giusto vennero trasportate da Oulx a Susa, nella Cattedrale, appena fondata da Olderico Manfredi.
La festa di San Giusto si celebra il 19 ottobre.
Sant’Eldrado nacque verso la fine dell’VIII secolo, e la sua vita fu legata a quella dell’Abbazia di Novalesa, di cui fu abate. Gli episodi più significativi della sua esistenza sono rappresentati negli affreschi della cappella a lui dedicata che si trova nei pressi dell’Abbazia.
Egli nacque verosimilmente nell’ultimo decennio del VIII secolo in Provenza, presso il castello di Ambellis, di cui divenne signore in giovane età a seguito della morte dei genitori. L’affresco della vela superiore della prima volta della Cappella mostra il giovane Eldrado nell’atto di coltivare le vigne paterne presso un fiume. Ben presto però Eldrado rinunciò ai suoi averi per seguire l’insegnamento di Cristo e si dedicò al pellegrinaggio. Gli affreschi lo raffigurano allora in procinto di ricevere da un sacerdote i simboli del pellegrino: la tonsura, il bordone e la bisaccia. Il cammino lungo le vie del pellegrinaggio lo portò probabilmente a Santiago de Compostella; quindi, valicate le Alpi per dirigersi verso Roma, si imbatté nell’abbazia di Novalesa, allora al colmo della sua fioritura.
Qui decise di divenire monaco, ricevendo l’abito di San Benedetto dall’abate Amblulfo, come mostra la quarta sezione della vela superiore degli affreschi. La rinuncia ai propri beni, l’ascesi itinerante, la scelta infine della vita di comunità, furono le prime tappe significative della vita di Eldrado, la quale si arricchì ulteriormente con l’elezione abbaziale. Egli venne scelto dai suoi confratelli con l’unica motivazione delle sue qualità personali e culturali, della sua santità. La sua attività di abate è ricordata nel Chronicon novaliciense per l’accortezza nell’amministrare i beni del monastero, per l’arricchimento apportato alla biblioteca monastica e per la fervente attività edilizia. Proprio a quest’ultima si riferisce la scena di un miracolo dell’abate Eldrado riportata sulla parete sinistra della Cappella. Nella scena rappresentata, Eldrado rende miracolosamente innocui i serpenti che infestavano il luogo prescelto da alcuni monaci per la fondazione di un monastero presso Monêtier-les-Bains*. Per queste qualità Eldrado fu amato dai suoi monaci e reputato – dice il Chronicon - “uomo fulgido per santità, pieno di sapienza, illustre pei miracoli”. Di questo è simbolo il cordoglio rappresentato dall’ultima scena della sua vita, quella relativa alla sua morte. La fama di santità dell’abate si diffuse presto tra la popolazione valsusina, e per questo motivo venne elevato all’onore degli altari vox populi e canonizzato ufficialmente nell’Ottocento.
La sua festa si celebra il 13 marzo.
San Giovanni Vincenzo fu eremita sul monte Caprasio ed Arcivescovo di Ravenna, diocesi che, negli anni immediatamente precedenti il 1000 in cui visse il Santo, era la più importante d’Italia. Ricoprendo questa carica egli venne a contatto con papi ed imperatori, ma decise di abbandonarla, attratto maggiormente dalla vita contemplativa e solitaria. Nel tempo in cui egli viveva, i vescovi avevano il governo della città in cui risiedevano e tutta la ricchezza e lo sfarzo propri dei prìncipi temporali. Ma San Giovanni Vincenzo, pur ricevendo quegli onori non come fatti alla sua persona ma alla Chiesa ed a Gesù Cristo, nel fondo del suo cuore piangeva di trovarsi esposto a così tante tentazioni di vanità ed ambizione. Il Santo credeva che il tempo che doveva dedicare agli affari temporali fosse tempo rubato alla preghiera, la quale era la principale ambizione della sua anima. Afferma Padre Savio, nella biografia riguardante il Santo, che questi tante volte in vita sua doveva aver affermato: “Chi mi darà delle ali da fuggirmene lontano ed andarmene in una solitudine, dove io possa pensare solo a purificare e perfezionare l’anima mia, dove io possa stringermi tutto con il mio Signore, e trattenermi solo con lui e non più con nessuna creatura di questa misera terra?”.
Per questi motivi, divenne eremita, ritirandosi con alcuni compagni in Valle di Susa, a Celle presso Caprie, dove fondò un romitorio e visse in una grotta. Qui costruì una chiesa, l’attuale parrocchiale, per attendere agli offici della preghiera.
San Giovanni Vincenzo era, infatti, discepolo di San Romualdo, fondatore dell’ordine camaldolese, che seguiva la Regola di San Benedetto ed aveva introdotto la costruzione di certi luoghi, presso i monasteri, detti romitori. In questi entravano solo quei monaci che anelavano ad una vita più perfetta, fatta di maggiori preghiere e maggior solitudine. La Valle di Susa era dunque sembrata adatta alla vita eremitica di meditazione, perché era rimasta, per lo più, deserta e disabitata in seguito alle devastazioni che, pochi anni prima, avevano compiuto i Saraceni.
Secondo la tradizione*, il Santo partecipò anche alla costruzione del monastero dei Santi Solutore, Avventore ed Ottavio in Torino, e fondò la prima chiesa sul monte Pirchiriano, primordio della futura Sacra di San Michele. Il santo visse per due anni sui monti di Celle, e qui morì il 12 gennaio dell’anno 1000. Nel 1154 l’Abate della Sacra volle il trasferimento delle spoglie del Santo da Celle al monastero. Anche su questa questione è tramandata una leggenda, secondo le vicende della quale il corpo del Santo fu conservato nei pressi della parrocchiale di Sant’Ambrogio, dove si era fermato il mulo che trasportava le sue sante reliquie.
La sua festa si celebra il 27 novembre.
San Mauro è contitolare, assieme a San Giusto, della Cattedrale di Susa e secondo Patrono della diocesi. Discepolo di San Benedetto, compare in inni liturgici ed in documenti fondiari della Cattedrale fin dal secolo XI. Il suo culto deriva forse dal monastero di Digione, il cui abate, San Guglielmo di Volpiano, partecipò al rito della solenne consacrazione della Basilica divenuta poi Cattedrale. Secondo uno studio recente la sua figura si sovrappose ad un più antico San Mauro.
Sulla figura di questo Santo si tramanda come un giorno il giovane Placido, volendo attingere dell’acqua, cadette in un lago e fu trascinato al largo. San Benedetto se ne accorse in visione e chiamò Mauro perché lo salvasse. Mauro, senza rendersene conto, camminò sull’acqua e tirò fuori il ragazzo.
La sua festa si celebra il 15 gennaio.
Mons. Rosaz nacque a Susa il 15 febbraio 1830 da genitori emigrati da Termignon, in alta Maurienne, e fu vescovo di Susa tra il 1878 e il 1903, anno in cui morì. Il 14 luglio del 1991 fu beatificato a Susa da Papa Giovanni Paolo II. Ancor prima di divenire sacerdote egli indirizzò la sua spiritualità verso l’ideale francescano, aderendo al Terz’Ordine prima di divenire diacono. Egli fece del donare senza ricevere uno scopo di vita, aiutando chiunque richiedesse il suo intervento. In quest’ottica nacque la sua volontà di dare un tetto alle ragazze fuggite di casa, sole o abbandonate, che trovò una realizzazione concreta nella fondazione del suo “Ritiro”. Dopo l’elezione a vescovo, avvenuta il 26 dicembre 1877, egli si prodigò per un profondo rinnovamento della Diocesi, favorendo l’insediamento in valle dei Salesiani, dei Frati Minori Conventuali, delle Suore di san Giuseppe, dei Fratelli delle Scuole Cristiane, e fondando egli stesso una congregazione, quello delle Suore Terziarie Francescane. Tre ragazze da lui accolte nel Ritiro furono le prime a vestire l’abito. I suoi modelli furono don Bosco, con il quale intrattenne amicizia, il Cottolengo, Rosmini. Il suo ideale, ogni giorno messo in pratica, era quello di creare una chiesa per i poveri. Ogni ragazza che intendeva prendere i voti e diventare una suora terziaria francescana, doveva essere animata dalla volontà di lavorare per il prossimo, per i più deboli: rischio e fede contraddistinguevano le religiose di questa Congregazione. Fede in Dio e rischio perché le risorse per aiutare gli altri erano poche e non garantite. Dunque una dolcezza ferma ed una fermezza dolce animavano il Beato Rosaz e le religiose. Una frase evangelica che egli citava spesso era: “Se avrete fede, potrete dire a quel monte spostati e quel monte si sposterà”. Tra le altre opere che egli compì ci furono anche la Chiesa del Suffragio, a Susa, per dare maggior decoro alle funzioni funebri, e la fondazione del giornale locale “Il Rocciamelone”, vivo ancor oggi con il titolo “La Valsusa”. La carità è stata dunque il principio fondamentale del Beato Rosaz, un vescovo che amò la sua terra.
Nato nella nobile famiglia di Cambiani a Ruffia (Cuneo), Pietro entrò a far parte dell’ordine domenicano all’età di sedici anni. Brillante studioso di Sacra Scrittura, teologia e diritto, fu ingaggiato dall’ordine nella battaglia contro i Valdesi in Piemonte. Nominato inquisitore generale in Piemonte da Papa Innocenzo VI, operò nella diocesi di Torino per quattordici anni, finché compì un viaggio nelle valli alpine in direzione del confine svizzero, occasione in cui trovò la morte.
Il Beato Pietro morì, infatti, pugnalato dai Valdesi a Susa, nel convento di San Francesco, dove si era recato a predicare, il 2 febbraio 1365. Un’iscrizione presso il convento ricorda, ancora oggi, questo episodio.
Il suo corpo fu recuperato e trasferito per la sepoltura nella Chiesa di San Domenico a Torino, dove tuttora riposa. Il culto di Pietro fu approvato da Papa Pio IX nel 1865, cinquecento anni dopo la sua morte.
I Domenicani lo commemorano il 7 novembre, mentre la sua festa, nel calendario liturgico, si celebra il 2 febbraio.
Anna Michelotti nacque ad Annecy in Francia il 29 agosto 1843, da padre originario di Almese e da madre francese. Fin dalla più tenera età diede mostra di una profonda devozione per l’Eucaristia e del desiderio di aiutare gli ammalati più poveri. Entrata a far parte delle suore salesiane fondate da San Giovanni Bosco, le Figlie di Maria Ausiliatrice, prese il nome di Giovanna Francesca della Visitazione.
La sua amorevole preoccupazione per i poveri la portò, nel 1874, alla fondazione a Torino della Congregazione delle Piccole Serve del Sacro Cuore, il cui scopo era quello di prendersi cura dei settori più bisognosi ed emarginati della popolazione.
Grande devota di don Bosco, si augurava sempre di incontrarlo in Paradiso. Sembra che durante la sua breve vita (morì il primo febbraio del 1888, a quarantaquattro anni) abbia patito incomprensioni e subìto calunnie. Fu beatificata da Papa Paolo VI il primo novembre 1975.
La sua festa si celebra il primo febbraio.
Il Beato Federico Albert nacque il 16 ottobre 1820 a Torino, dove il padre, di Chateau-Beaulard presso Oulx, prestava servizio come alto ufficiale dell’esercito di Sardegna. Essendo il figlio maggiore, si stava preparando ad entrare nell’Accademia Militare della città, quando un giorno si recò a pregare presso il sepolcro del Beato Sebastiano Valfré, il cosiddetto “Apostolo di Torino”. In seguito abbandonò l’idea di entrare nell’esercito ed intraprese, invece, gli studi per il sacerdozio. Dopo l’ordinazione sacerdotale, avvenuta il 10 giugno 1843, il suo primo incarico, che svolse per nove anni, fu quello di cappellano del re.
Nel 1852, in un’occasione diventata famosa, Vittorio Emanuele II, accompagnato dalla famiglia e da tutta la corte, fu presente ad una delle omelie quaresimali di Federico. Il testo dell’omelia scelto per quel giorno era il racconto dell’Evangelista Giovanni che concerneva la donna colta in adulterio. Federico non moderò le parole e ci fu un mormorio pieno d’ansia tra i cortigiani allarmati, tutti a conoscenza dei peccati commessi dal re, ma quest’ultimo ammirò la sua onestà e disse mentre stava partendo: “Grazie, mi hai sempre detto la verità”.
Un breve discorso pronunciato nella parrocchia torinese di San Carlo spinse Federico a prendere la decisione di non rimanere a corte per tutta la vita. Chiese e ricevette il permesso di partire, e gli fu così affidata una parrocchia estesa, molto popolata e bisognosa, a Lanzo Torinese. Il contrasto tra la sua vita precedente e quella attuale fu totale, e per un momento trovò la vita difficile, tuttavia perseverò, ad iniziare dalla chiesa, che era caduta in un grave degrado. Assistito dai suoi parrocchiani, che formavano con lui una catena umana per portare le grosse pietre sulla montagna, raccogliendole dal letto asciutto di un ruscello, si mise al lavoro per restaurarla.
Grazie alle sue notevoli qualità di predicatore, guidò gli esercizi spirituali sia per i laici sia per il clero, ed organizzò missioni pubbliche, durante le quali dedicava ogni sua energia al benessere spirituale del popolo. Dopo aver deciso di fondare una scuola per ragazzi, si rivolse al suo amico San Giovanni Bosco per avere un aiuto pratico. Per fornire rifugio e cura agli orfani e ad altri poveri, costruì l’ospizio di Maria Immacolata e, successivamente, istituì la Congregazione delle Suore Vincenziane di Maria Immacolata (conosciute come albertine) che lo gestisse.
Nel 1873 fu eletto vescovo di Pinerolo e, dopo molte preghiere e suppliche, riuscì a persuadere Papa Pio IX (1846-1878) a nominare qualcun altro al suo posto.
La vita di Federico finì bruscamente nel 1876. Era impegnato nel creare un insediamento agricolo (per dare lavoro ai giovani che avrebbero coltivato le terre della chiesa), quando, mentre stava pitturando il soffitto della cappella (un compito che aveva deliberatamente deciso di svolgere per non mettere in pericolo i giovani collaboratori) perse l’equilibrio e si schiantò al suolo. Morì il 30 settembre 1876, a Lanzo Torinese.
Il popolo lo ricordava soprattutto per la sua instancabile carità pratica, l’approccio tollerante e compassionevole verso la gente, ed il suo carattere paziente ed equanime.
Venne beatificato da Giovanni Paolo II il 30 settembre 1984, a Roma, insieme al Beato Clemente Marchisio, sacerdote che aveva ricevuto l’ordinazione sacerdotale nella Cattedrale di San Giusto di Susa.
La sua festa si celebra il 30 settembre.
Pier Giorgio Frassati nacque a Torino il 6 aprile 1901: il padre Alfredo, senatore del regno d’Italia, fondatore e direttore del quotidiano “La Stampa”, fu ambasciatore a Berlino, mentre la madre si chiamava Adelaide Ametis. Studiò presso i Gesuiti, poi frequentò il corso di ingegneria industriale e meccanica al Politecnico di Torino, specializzandosi in estrazioni minerarie. Nel 1919, si unì ad un gruppo di studenti della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (F. U. C. I.), movimento studentesco fondato alla fine del XIX secolo, un ramo importante dell’Azione Cattolica, che aveva tra i suoi scopi la formazione di un’élite di laici, e che divenne il centro del pensiero e della propaganda antifascista. Diventò anche membro del Partito Popolare Italiano, propendendo per l’ala sinistra del movimento, favorendo un’alleanza con i socialisti e contribuendo alla fondazione di un giornale di sinistra, Il Pensiero popolare, nel 1923. Fu arrestato nel 1921 durante il congresso della Gioventù Cattolica a Roma, e nel 1924 fu vittima della violenza fascista.
Viaggiò all’estero, specialmente in Germania, dopo che suo padre era diventato ambasciatore in questa nazione, ebbe contatti con il movimento internazionale conosciuto come Pax Romana e ne frequentò il primo congresso annuale a Ravenna nel 1921. Si fece coinvolgere nelle lotte politiche per il controllo del movimento studentesco all’università di Torino, e dopo l’assassinio di Matteotti nel 1924, si iscrisse all’Alleanza Universitaria Antifascista.
Il Beato Pier Giorgio fu anche membro attivo di diverse congregazioni ed associazioni religiose; si unì alla Confraternita del Rosario nel 1919 ed al gruppo di studenti universitari della Adorazione notturna del SS. Sacramento, l’anno seguente. Divenne terziario domenicano nel 1922, col nome di Girolamo. La scelta del nome era dovuta alla sua ammirazione per il Savonarola, il frate che fu messo al rogo nel 1498, esempio di un uomo che aveva cercato instancabilmente il bene spirituale dei suoi concittadini e che era animato dall’ardire, lontano dall’immoralità che dilagava allora, soprattutto tra le classi più alte. Era anche membro dell’Associazione San Vincenzo de’Paoli e forse, visitando i malati, contrasse una forma virale di poliomielite, dato che morì improvvisamente nel luglio 1925. Il suo funerale fu degno di nota per il gran numero di poveri che vi parteciparono. Fu sepolto a Pollone, vicino a Vercelli, luogo d’origine della sua famiglia.
La sua profonda spiritualità e le sue ardenti convinzioni politiche non erano subito evidenti in quella personalità tranquilla, estroversa e calorosa; appassionato di montagna e sci, frequentava sovente le montagne della Valle di Susa. Era intransigente quando doveva difendere la sua fede, si trattasse dell’importanza della democrazia o della verità della dottrina cattolica. La sua attività politica era motivata dalla fede: desiderava riformare lo stato in base a principi veramente cristiani, primo fra tutti la fede nell’importanza di ogni essere umano in quanto individuo amato da Dio e redento da Cristo. Nonostante la brevità della sua vita, fu un modello esemplare di vita laica vissuta appieno ed ispirata da una spiritualità personale, che includeva necessariamente un interesse attivo per il bene degli altri. Molti gruppi studenteschi universitari si sono ispirati al suo esempio, e hanno scelto il suo nome per il loro titolo.
Il Beato Pier Giorgio è stato beatificato il 20 maggio 1990. In questa occasione Papa Giovanni Paolo II ha parlato della fede e della carità come le forze che hanno dato significato alla sua vita e che gli hanno permesso di assumere un ruolo attivo, energico nella famiglia, nella scuola ed all’università, e nella società ad un livello più alto, e lo hanno trasformato in un apostolo di Cristo gioioso ed entusiasta. Secondo il Papa, Pier Giorgio ha seguito il monito di Pietro: “…adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere sempre a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15).
In un messaggio ai suoi amici cattolici in Germania il Beato Pier Giorgio aveva scritto: “I Governi di oggi non conoscono il monito del Pontefice: ‘La vera pace è più frutto del cristiano amore del prossimo che di giustizia’, e preparano per il futuro nuove guerre per tutta l’umanità. La società moderna affonda nei dolori delle passioni umane e si allontana da ogni ideale di amore e di pace. Cattolici voi e noi, dobbiamo portare il soffio di bontà che solo può nascere dalla fede di Cristo”.
San Giusto trascorse la sua vita claustrale presso l’Abbazia di Novalesa, nel IX secolo, rimanendo qui, con San Flaviano, anche quando gli altri monaci fuggirono a causa delle incombenti invasioni saracene. Quando queste si fecero più che imminenti, anche i due Santi abbandonarono l’Abbazia e si rifugiarono presso Oulx, che, da allora fu chiamata “plebs martirum”, pieve dei martiri, poiché qui i due Santi ed altri cristiani vennero uccisi dai Saraceni. E proprio in Oulx San Giusto trovò la sepoltura. Il suo corpo, dopo il martirio, fu infatti deposto nella cappella o oratorio dedicato a San Pietro, in prossimità della Chiesa di San Lorenzo.
Molte tradizioni popolari fanno riferimento a San Giusto ed alle sue vicende.
Il larice a sette punte di Beaulard
Ai piedi delle rupi dell’Arbour, sulle alture di Beaulard presso Oulx, sorge tuttora una cappella, dedicata a San Giusto che ricorda come, secondo una tradizione piuttosto ben fondata, il Santo si rifugiò qui, insieme a San Flaviano, in seguito alla sua fuga da Novalesa. I due si erano rifugiati in una grotta, su cui sorse l’attuale cappella. San Giusto percosse con un bastone una rupe e ne sgorgò tanta acqua da estinguere la sete dei due Santi.
Per spiare le mosse dei Saraceni nella Valle, i due salivano su un larice a sette punte. Ciò era forse dovuto al fatto che quel tipo di albero era adatto come riparo durante la notte, per sfuggire agli attacchi dei lupi e degli orsi, e come letto naturale, che si formava all’altezza degli alberi.
Di lì i due Santi videro anche il fumo dell’incendio che consumava la Chiesa di San Lorenzo di Oulx e scorsero le anime dei martiri innalzarsi in cielo. Allora, sgomenti e presi dalla vergogna per essere fuggiti, San Giusto e San Flaviano scesero a valle per affrontare anch’essi il martirio.
Il larice su cui i due salivano non si spogliava delle foglie d’inverno ed era venerato come sacro. Un giorno, però, un certo Médail di Puy-Beaulard lo abbatté. I suoi quattro figli, per castigo celeste, morirono tutti e l’ultimo morì schiacciato dal suo carro contro un larice mentre trasportava pietre per la costruzione della chiesa di Puy-Beaulard.
I miracoli di San Giusto
Si narra come un giorno, presso Oulx, si fosse radunata una grande assemblea di persone. Lontano da loro, il “custode del Santo”, come venne definito Stefano di Tours, lo scopritore delle reliquie di San Giusto, depose le spoglie del Santo. Ma quando decise di trasferire il sacro fardello presso la numerosa assemblea, non riuscì a smuoverlo dal luogo. Invano si sforzò, perché, simile ad una rupe o ad un albero fisso nel terreno grazie alle sue radici, il Santo rimaneva immobile per effetto del suo potere sovrano. Dunque una donna, che zoppicava da molto, si gettò a terra per pregare e subito si alzò con i due piedi guariti. Questa notizia giunse immediatamente alle orecchie di tutto il popolo, che, appreso il potere del Santo, abbandonò l’assemblea e andò a pregare per essere liberato dalle proprie infermità. Molti vennero esauditi e, tra gli altri, un cieco riacquistò la vista dopo che dai suoi occhi erano scese abbondanti lacrime.
Molte leggende sono state tramandate sulla vita di Sant’Eldrado, abate dell’Abbazia dei Santi Pietro e Andrea nel IX secolo, la cui esistenza ha però anche avuto carattere storico. A Novalesa, nei pressi dell’Abbazia, sorge una cappella sulle cui pareti sono affrescati gli episodi principali della sua vita, a partire dalla sua nascita nel “locus Ambillis” (oggi Lambesc, in Provenza), fino ad arrivare alla sua morte, in presenza di due “fratres contristati”. La sua figura è sempre stata oggetto di grande venerazione, tanto che, ancora oggi, molte leggende sono vive su questo Santo.
Il sonno di Eldrado
Un giorno il Santo Abate, come era solito fare, si rifugiò in un ripiano molto selvaggio sito nel parco dell’Abbazia, poco discosto dall’attuale fontana, per meditare. Sedutosi sotto un albero, rimase colpito dal canto di un usignolo, tanto che si estraniò dal mondo esterno. Tornato in sé, andò verso l’Abbazia, bussò ma i monaci non lo riconobbero, ed anche l’Abbazia era diversa. Consultando i documenti dell’Abbazia si scoprì che erano passati trecento anni! Come riporta la scritta presente sull’affresco esterno sopra la porta della Cappella di Sant’Eldrado, Eldradus computat vitae melioris annos, Eldrado conta gli anni di una vita migliore.
L’olio della roccia
Una volta c’era una grande miseria. Allora S. Eldrado, con un bastone, percosse una roccia e cominciò a scorrere, abbondante, l’olio. La gente, per ringraziamento, aveva fatto fare un mestolo d’oro che serviva per raccogliere l’olio miracoloso. I monaci dell’Abbazia dove era sgorgata la sorgente apprezzavano il dono del loro Santo Abate ma non seppero resistere alla tentazione di farne commercio. Come la miseria cessò, cominciarono a venderlo. Allora Sant’Eldrado fece sì che dalla sorgente non scorresse più olio, ma soltanto acqua. Ancora oggi, dalla roccia posta sotto la cappella dedicata al Santo Abate, scorre questa stessa acqua.
La vipera nella gola
Un giorno, due bambini stavano pascolando le mucche nella zona di Saruel e, poiché esse erano tranquille, si erano addormentati. Ad un tratto uno di loro si svegliò e vide che il compagno aveva una vipera in gola, attirata dall’odore di latte che usciva dalla sua bocca. Si mise ad urlare per la paura e poi, caricatosi l’amico sulle spalle, lo portò a casa. Anche la mamma del ragazzo si spaventò a morte, ma si mise a pregare Sant’Eldrado, implorandolo di liberare suo figlio. Avvoltolo in panni caldi, lo accompagnò alla cappella del Santo nell’Abbazia e si inginocchiò a pregare. Poco dopo la vipera uscì dalla bocca del bambino e se ne andò nel bosco vicino.
Il miracolo dei serpenti
Ben raffigurato nella parete destra della prima campata, il miracolo dei serpenti riguarda la città francese di Monêtier-les-Bains, presso Briançon, infestata da pericolose serpi. Eldrado si recò in questa regione e, dopo aver recitato una preghiera, con una ferula in mano prese a girare per tutto il villaggio. Raccolse tutti i serpenti, li radunò in un piccolo avvallamento e comandò loro, in nome di Dio, di restarvi per tutti i giorni a venire. Poi aggiunse: “Ma se mai vi capitasse di uscire da qui, vi impongo, in nome del Signore, di non nuocere ad alcuno”. Da quel giorno, tutte quante le serpi obbediscono. E quando la gran calura le brucia, si scorgono striscirae liberamente per il villaggio, entrare nelle case, spingersi sino ai focolari, starsene tra due sdraiati nel letto o dormire nella culla di un bambino senza fare alcun male.
Le origini dell’Abbazia di Novalesa
Narra il Chronicon novaliciense, un testo redatto da un monaco anonimo nella metà del XII secolo, come una nobile matrona romana di nome Priscilla, parente di Nerone, per sfuggire alle persecuzioni che Nerone attuava contro i Cristiani, si rifugiò in Piemonte, accompagnata da altri che segretamente professavano la sua religione, fra cui Elia e Mileto, che dalla Palestina avevano seguito San Pietro. Giunta in Piemonte, Priscilla scelse come luogo di dimora la solitaria Valle di Susa, allora nascosta alla vista dei viandanti. La santa compagnia giunse a Susa, dove fu ben accolta da Burro, parente di Priscilla e governatore di tutto il Piemonte, e dai cittadini di Susa, per la considerazione che avevano di lui e per i meriti di Priscilla, dei Santi Elia e Mileto e di tutti i Cristiani. Soggiornarono in questa Valle per qualche tempo, finchè conobbero la zona; trovarono allora molto gradevole la valle della Novalesa, subito vicina (ed i suoi abitanti cortesi e benevoli, d’una bontà spontanea e di piacevole aspetto) ed adatta a ritirarvisi per attendere al servizio di Dio. Elessero dunque la detta Valle a loro dimora e, non meno cortesemente che in Susa, furono ricevuti dai suoi abitanti, che li accolsero nel loro numero come liberi cittadini del Paese, li resero partecipi dei loro fondi e beni e li nutrirono convenientemente, fornendoli di tutto quanto era necessario per il loro sostentamento. Poiché erano stati condotti lì dallo Spirito Santo per la salvezza di quella regione, da genti apostoliche quali erano, che vivenano in terra solo con il corpo e con lo spirito in cielo, essi si scelsero un luogo remoto della regione, dalla parte del mezzogiorno, ai piedi di una foresta grande e su di una costa lontana dal passaggio degli stranieri, dove c’era una torre alta e possente e senza dubbio delle abitazioni nei dintorni. La santa compagnia predicò ai Nemaloni, abitanti di quella regione, la fede cristiana e la legge evangelica. In questa Valle, venne a far visita a Priscilla San Pietro, che la consolò e benedì tutti quei Cristiani, esortandoli alla pietà ed alla costanza nella confessione del nome di Cristo. Quando vennero a sapere della sua morte, innalzarono una chiesa in suo onore e la chiamarono Chiesa di San Pietro Apostolo, ed a tutt’oggi essa ne conserva il nome. Dopo che i Santi romani si furono stabiliti là, essi cambiarono il nome a quel luogo, che si chiamava, a detta di molti, “Ocelo”. Il Paese si chiamò dunque Novalesa, per indicare la nuova legge (nova lex) e la nuova luce (nova lux), portata dalla fede e dalla religione cristiana. Una delle sante ossa di San Pietro, si narra, fu trasportata da Roma a Novalesa da una monaca che, stremata per il lungo viaggio, si fermò a dormire in una capanna. Ma un signore della Gallia, che intendeva andare a Roma, smarrì la strada proprio nella regione della Novalesa. Uno dei suoi servi vide il fumo che usciva dalla capanna della monaca. Il signore, con il suo seguito, si recò presso di lei, la quale gli mostrò la santa reliquia. Poiché il signore non credeva, la monaca prese due coppe, una di vino ed una d’acqua. Quest’ultima, a contatto con la reliquia, si mutò in vino. Alcuni raccontano che quel signore era Abbone, patrizio romano, fondatore dell’Abbazia di Novalesa.
San Giovanni Vincenzo venne, poco prima del 1000, venne a condurre vita eremitica e penitente sulle montagne della Valle di Susa, sui monti di Celle – presso Caprie – dopo essere stato arcivescovo di Ravenna. La sua morte risale invece al 12 gennaio del 1000, allorché chiese al Signore di morire in solitudine, mentre i suoi confratelli erano occupati nelle loro celle o altrove. La sua dimora sorgeva su un poggio che fa parte del monte Civrari o Caprasio, posto sulla sinistra della Dora Riparia e dirimpetto all’alto monte Pirchiriano, sul quale era – ed è – ubicata la Sacra di San Michele. Il luogo era pieno di fitti boschi, ma, sopra una prominenza, che si distacca alquanto dal resto della montagna, vi era un luogo ben soleggiato con una piccola pianura. In fondo a quest’ultima, due enormi macigni, rotolando dalla vetta nelle età preistoriche, s’incontrarono così opportunamente sui loro spigoli, che formarono una bellissima grotta. Qui San Giovanni Vincenzo costruì per sé ed i suoi compagni delle celle. Tuttora questo luogo conserva il nome di “Celle”.
Uno dei primi pensieri del Santo, dopo aver costruito per sé ed i suoi compagni un ricovero che li proteggesse dalle intemperie e desse loro la possibilità di attendere alle preghiere ed alle sante meditazioni, fu quello di costruire una chiesa, l’attuale Chiesa Parrocchiale di Santa Maria della Stella.
Il Santo era un discepolo di San Romualdo, un monaco che seguiva la regola di San Benedetto con l’aggiunta dell’istituzione dei romitori, luoghi nei pressi dei monasteri in cui i monaci potevano meditare. La visione di San Romualdo era orientata alla povertà ed alla penitenza in misura maggiore rispetto a quanto lo fosse la regola di San Benedetto.
La memoria popolare conserva interessanti aneddoti riguardo a San Giovanni Vincenzo.
La costruzione della Chiesa di San Michele
Il cronista della Chiusa di San Michele narra come spesso apparisse a San Giovanni Vincenzo, che si trovava sul Caprasio, l’arcangelo Michele. Un giorno questi gli chiese di erigere un’altra chiesa a lui dedicata, ed il Santo si mise immediatamente a lavorare il legno. Un mattino, però, il Santo si recò sul luogo di lavoro, ma i materiali preparati erano scomparsi. Egli ne fu molto stupito ed addolorato, ma presto arrivò l’arcangelo Michele a consolarlo. Questi gli comandò di erigere la chiesa sulla vetta che stava di fronte al Caprasio, nel luogo che gli avrebbe indicato, con il suo volo, una colomba. San Giovanni Vincenzo allora scese dal Caprasio e raggiunse il monte Pirchiriano, e trovò, in bell’ordine, i legnami, trasportati là dagli angeli. La nuova chiesa di San Michele fu poi velocemente compiuta con accanto, come sul Caprasio, alcune celle per i romiti. Così nacque il Santuario della Chiusa.
Il fuoco celeste
Quando la chiesa di San Michele sul Pirchiriano fu conclusa, San Giovanni Vincenzo pregò il vescovo di Torino Amizone di venirla a consacrare, secondo il rito. Amizone decise di fermarsi ad Avigliana poiché era stanco per il viaggio, ma il suo sonno venne interrotto dalle grida e dal tumulto della gente: il monte Pirchiriano ardeva. Una luce vivissima in forma di colonnina di fuoco scendeva dal cielo sul monte e, con le sue fiamme, lambiva tutto intorno la vetta. Contemporaneamente, una schiera di angeli in forma umana con paramenti pontificali si dirigeva alla chiesa, mentre una colomba, discesa dall’alto con spessi giri, volava lì intorno. Amizone, allora, si reca al santuario, dove trova i lumi accesi da mano misteriosa, le pareti unte d’olio, il pavimento sparso di cenere, l’altare, eretto dagli angeli, grondante olio e balsami di mirabile fragranza, freschi segni dell’avvenuta consacrazione miracolosa, che egli dunque non ripeté. La tradizione vuole che egli abbia cominciato a sentire il profumo dell’incenso miracoloso della consacrazione proprio nel punto in cui ora sorge la cappelletta bianca, a metà circa della salita verso il monte.
Amizone decretò che quel luogo fosse, per l’avvenire, indipendente dall’autorità dei vescovi di Torino. Da questo prodigio il monastero prese il nome di “Sacra”.
La traslazione del corpo
Verso la metà del XII secolo, essendo stata terminata la ricostruzione della Chiesa di San Michele della Chiusa, si decise di trasferire lì le spoglie del Santo. Queste furono allora poste su una cavalcatura, ma questa, per quanto si usassero i bastoni e le sferzate, non si volle mai muovere una volta arrivata ad un certo punto della strada. Si decise quindi di lasciare le sante spoglie là dove l’animale si era fermato, ossia nel paese di Sant’Ambrogio, in un luogo vicino alla Chiesa Parrocchiale dove, ancora oggi, sorge un pilone che ricorda questo avvenimento.
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